I reperti raccontano

Il MŪSA vi propone una selezione dei reperti più significativi dell’esposizione, in quanto ricchi di storie da raccontare.

Dedicata a tutti coloro che desiderano scoprire il museo attraverso una visione alternativa.

Sarete accompagnati, passo dopo passo, lungo un percorso di immersione totale nella storia di Alghero e del suo territorio. Dal Neolitico Antico fino al Post Medioevo. Un “assaggio” che rispetta l’identità del Museo e ne sottolinea gli aspetti più caratterizzanti.

Ora possiamo cominciare… buona visita!

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Il mare

VILLAGGIO NURAGICO DI SANT’IMBENIA

Questa ricostruzione con i suoi reperti originali ci fornisce uno spaccato della società  e dell’economia di un villaggio nuragico  risalente agli inizi dell’età del Ferro.

La cosiddetta “Capanna dei ripostigli”, sicuramente una delle strutture più significative dell’abitato, fa parte di un importante progetto urbanistico che mette in evidenza la presenza di ambienti comunitari destinati in parte alla produzione degli artigiani.

La creazione di un’area collettiva centrale aperta con chiara funzione pubblica, ci fa immaginare un probabile scenario della vita e della società del villaggio: qui avvenivano le attività di scambio e commercio sia  “internazionale” che, e forse soprattutto, interno.

Le cosiddette “anfore di Sant’Imbenia” d’ispirazione fenicia, ma prodotte in Sardegna sono l’indice di ampi rapporti commerciali di questo strategico scalo marittimo con diverse aree del Mediterraneo ed in particolare con i Fenici.

Questo dato importante ci permette di considerare Sant’Imbenia il sito di frequentazione fenicia più antico dell’Isola.

I mercanti sono di certo attratti dalla notevole ricchezza del territorio e dei suoi prodotti: olio, vino, maiali, ovini, bovini, metalli quali l’argento e il piombo all’Argentiera, il ferro a Canaglia e il rame a Calabona. Da qui, la presenza di una notevole  quantità di panelle di rame, di oggetti e utensili in metallo.

RELITTO ROMANO DEL MARIPOSA

Un naufragio di una nave romana che nel I sec. d. C. viene sorpresa da una mareggiata e affonda nel tratto del litorale di Alghero in corrispondenza dell’attuale campeggio Mariposa.

È questo lo scenario che immaginiamo osservando alla ricostruzione del fondale marino con i resti del relitto presente nel museo.

Un relitto tra i più importanti nel Mediterraneo, grazie anche alla rilevanza dei suoi reperti.

Tra questi spiccano un cospicuo numero di coppette carenate in ceramica a pareti sottili.

Piccole ciotole che ci raccontano molto sulle modalità di trasporto dell’epoca e sull’evoluzione del commercio nel bacino del Mediterraneo.

La loro particolare caratteristica del diametro variabile ne consentiva lo stivaggio impilandole in numero di quattro, così come sono state rinvenute durante gli scavi iniziati nel 1997.

Questa produzione ceramica dallo spessore sottile, detta anche “a guscio d’uovo”, per il colore tendente al bianco, è attestata dal II sec. a.C. al II sec. d.C.

Un prodotto il cui commercio doveva probabilmente costituire un’alternativa modesta alle pregiate suppellettili in vetro destinate al pubblico aristocratico romano.

L’importanza di questo ritrovamento viene rafforzata dal fatto che per la prima volta queste ciotole vengono documentate in un contesto navale, in un carico abbinato a un commercio di altre tipologie.

RELITTO MEDIEVALE DI CAPO GALERA

Arriva dal mare questa grande ed elegante giara in terracotta. Si presume sia stata realizzata in Andalusia tra la fine del XII e la prima metà del XIII secolo, periodo in cui la Spagna Meridionale era sotto la dominazione dell’impero musulmano Almohade.

La giara faceva parte del carico di una nave che affondò nell’insenatura di Capo Galera, a breve distanza dalla costa di Alghero, in un luogo in cui l’imbarcazione doveva aver sostato durante il suo itinerario. Di quella che sarebbe dovuta essere la sua destinazione, non si conosce notizia. 

Il relitto è stato scoperto nel 1995 e giace tuttora a poco più di 5 metri di profondità, sul fondale ricco di posidonia che preserva i resti dell’imbarcazione e del suo carico. In Sardegna e in Italia è raro trovare confronti simili per questa giara.

Si tratta di un ampio contenitore globulare, con anse a sciabola e motivi decorativi impressi all’interno di fasce orizzontali di varia grandezza, disposte intorno alla metà più alta della sua superficie.

Le fasce sono composte da ornamenti fitomorfi (decorazioni di forma vegetale) e da iscrizioni in cufico corsivo e fiorito (particolare stile calligrafico arabo). Le scritte stampate si ripetono e sembrano formare frasi propiziatorie e di buon auspicio che inneggiano ad Allah.

I reperti rinvenuti nel contesto archeologico testimoniano una vivace vita di bordo, prevalentemente riconducibile a un equipaggio di cultura araba: ceramiche da cucina di uso individuale e collettivo fra cui una probabile couscoussiera, resti di scarpe in cuoio, anfore costolate, un porta rotolo con iscrizioni in arabo, ampie giare decorate.

L’esemplare esposto all’interno del museo doveva contenere acqua dolce, un bene prezioso specialmente durante le lunghe traversate in mare.

RELITTO A POSTMEDIEVALE DEL MARIPOSA

Sin dall’antichità, da Oriente a Occidente, l’occhio è considerato un simbolo dalla funzione apotropaica e propiziatoria. Per questo, nelle tavole in legno degli scafi, era frequente vedere incise decorazioni a forma di occhio che avrebbero dovuto proteggere i marinai dai pericoli e dalle minacce delle traversate.

Il relitto rinvenuto fra il 1988 e il 1989 lungo il litorale di Alghero, sul fondale sabbioso di fronte al campeggio Mariposa, rispetta questa antica tradizione.

Già da una una prima indagine pareva un’imbarcazione di tipologia moderna, ma con caratteristiche riconducibili a uno scafo arcaico: le analisi al carbonio 14 effettuate sul relitto rivelano infatti i resti di una nave che, al momento dell’affondamento, aveva un’età superiore ai cento anni dalla sua costruzione. 

L’arcaicità della struttura giustifica la presenza della decorazione a forma di occhio rinvenuta sul lato sinistro della prua, incisa in bassorilievo sul legno.

Dalle campagne di scavo di archeologia navale è emersa la struttura di una caracca, più nota con il nome di caravella: si trattava di un’imponente imbarcazione a vela di origine spagnola, lo stesso tipo di nave che nel 1492 condusse Cristoforo Colombo nella spedizione verso l’America.

La caracca veniva impiegata in tutta la zona del Mediterraneo come nave mercantile, in un ampio periodo di tempo che parte dalla fine del 1400, fino al 1600 circa.

Il relitto affascina non solo per le sue caratteristiche costruttive, ma anche per il suo ottimo stato di conservazione. Strati di sabbia, ghiaia e un ricco manto di alghe lo hanno infatti preservato dalle insidie del tempo.

Gli oggetti rinvenuti al suo interno rivelano le abitudini della vita di bordo e permettono di far risalire il naufragio tra la fine del XV e il XVI secolo.

Barilotti in legno contenenti sardine sotto sale, una pentola da fuoco, un rosario in legno, un set per l’igiene personale: i reperti raccontano la quotidianità dei marinai e aiutano a ricostruire le rotte commerciali che coinvolgevano Alghero e le sue coste.

I modi dell'abitare

GROTTA VERDE

Le tecniche di lavorazione della ceramica sperimentate dagli antichi abitanti del territorio sono varie e affascinanti.

Sin dal Neolitico Antico la produzione dei manufatti in terracotta è da considerarsi un’importante innovazione nella cultura materiale: le prime testimonianze dell’invenzione della ceramica sono riconducibili alle popolazioni del Vicino Oriente, luogo da cui la nuova tecnologia si è poi estesa a tutto il resto del mondo arcaico. 

Nella zona del Mediterraneo, in particolare, si è diffusa la cultura della ceramica cardiale, che consisteva nell’imprimere il bordo dentato di una conchiglia chiamata cardium nell’impasto ancora fresco di argilla e acqua.

I frammenti di vasi ritrovati all’interno della Grotta Verde, importante sito archeologico situato all’estremità occidentale della Baia di Porto Conte, nel promontorio di Capo Caccia, ne sono un esempio.

Risalgono al Neolitico Medio (4.000 – 3.400 a.C.) e, nello specifico, alla cultura che in Sardegna viene definita di Bonu Ighinu: località in provincia di Sassari in cui sono stati rinvenuti, per la prima volta, reperti riconducibili alla seconda fase del Neolitico nell’Isola.

A questa antica comunità appartengono le produzioni preistoriche più eleganti e raffinate sia per la qualità dell’impasto, sia per il tipo di decorazione.

Oltre alle ceramiche con decorazione cardiale, nella parte della grotta che attualmente si trova sotto il livello del mare, sono stati scoperti manufatti privi di ornamenti riconducibili invece alla fase più antica del Neolitico sardo, riconosciuta come Filiestru-Grotta Verde.

Questa denominazione testimonia la rilevanza del sito nel ricostruire le prime fasi del Neolitico in Sardegna. La Grotta Verde è infatti fra i luoghi che hanno ospitato i primissimi insediamenti umani nel territorio.

Rifugio, abitazione, luogo di sepoltura e di culto: la grotta ha, ancora oggi, tanto da raccontare.

VILLAGGIO NURAGICO DI PALMAVERA

Un reperto insolito in un contesto nuragico e che attira la nostra attenzione.

Si tratta di un amo da pesca che appartiene a uno dei siti archeologici più visitati in Sardegna:

il Complesso nuragico di Palmavera (Bronzo Medio, XV-XIV sec. a.C.- fine del VIII sec. a.C.).

L’insediamento è composto da diversi elementi strutturali.

Un nuraghe complesso, che è il risultato di diverse fasi costruttive.

Un antemurale di forma pentagonale (munito di torri capanna) che racchiude un ampio cortile. Qui spicca per dimensioni e caratteristiche la Capanna delle Riunioni: un luogo pubblico dove la comunità poteva dibattere i problemi e celebrare riti e cerimonie.

E infine un vasto villaggio con numerose capanne per lo più circolari che si sviluppano attorno all’antemurale.

La sua posizione di controllo verso la costa e la vicinanza alla cala del Lazzaretto, da cui dista poco più di 1 km, ci aiutano a capire che la pesca doveva essere una delle attività più importanti dell’abitato.

Questo piccolo oggetto in bronzo ci permette di immaginare quanto fossero importanti le risorse del mare nell’economia del villaggio e che probabilmente questa comunità avesse affinato una tecnica di pesca non così lontana da quelle utilizzate in tempi successivi.

Gli scavi hanno restituito anche abbondanti resti di molluschi, forse tra i cibi più consumati dagli abitanti del villaggio.

Sembra che anche le donne contribuissero alla pesca e alla raccolta dei frutti di mare.

Purtroppo questo splendido scenario venne bruscamente abbandonato a seguito di un violento incendio alla fine del VIII sec. a.C.

VILLA ROMANA DI SANT’IMBENIA

Una splendida Villa marittima che spicca sulla riva del punto più riparato della baia di Porto Conte.

È così che possiamo immaginare la Villa romana di Sant’Imbenia, grazie al restauro dei materiali provenienti dagli scavi, alla loro musealizzazione e alla ricostruzione di una stanza della residenza.

Ad oggi la più ricca e la più bella che conosciamo in Sardegna.

Più che un singolo reperto vogliamo mettere in evidenza una parte della ricostruzione della stanza presente all’interno del museo: il rifacimento verosimile del pavimento a lastrine di marmo policromo.

Il restauro dell’opus sectile pavimentale di Sant’Imbenia ha trasformato un immenso, laborioso puzzle di marmi e pietre in una raffinata testimonianza di un ambiente della ricca domus romana.

L’ipotesi ricostruttiva realizzata costituisce, nella sua ipotetica grandezza, un insieme unico nel suo genere in Italia, soprattutto perché restituisce ai reperti il loro significato storico e ci permette di capire le tipologie architettoniche e decorative della Villa e lo stile di vita dell’epoca.

Nell’ambito dell’edilizia romana residenziale l’opus sectile decorava, generalmente, pavimenti di ambienti destinati all’accoglienza degli ospiti, le cosiddette stanze di rappresentanza o d’udienza.

Qui il padrone di casa svolgeva riunioni, allacciava relazioni politiche e concludeva affari.

Erano quindi ambienti destinati a un uso ufficiale all’interno delle mura domestiche.

Gli ambienti venivano accuratamente decorati per dare sfoggio del prestigio e del grado sociale del proprietario, della sua influenza politica e ricchezza

Il pregio, la rarità e la quantità dei materiali utilizzati per realizzare questo pavimento trovano piena corrispondenza nella varietà di specie marmoree d’importazione, molto dispendiose, provenienti da luoghi lontani dell’Impero,come la Grecia, l’Egitto e l’Asia Minore. Elemento che conferisce  alla Villa un carattere “internazionale”.

È facile immaginare questo prezioso pavimento inserito in un ambiente ricco, complesso  e di eccelsa qualità, dotato di tutti i comfort:  zona termale, cisterna per l’approvvigionamento idrico, vista mare. Insomma, una dimora di lusso che sicuramente apparteneva a una famiglia di altissimo rango.

Ipotizziamo uno stile di vita consono a un tale livello sociale nel quale il cibo abbondante, il buon vino e i passatempi culturali ritmavano le ore delle lunghe giornate estive.

CENTRO STORICO

Gli scavi di archeologia urbana nell’abitato medievale di Alghero hanno restituito informazioni rilevanti sull’evoluzione della città dalla sua nascita, sul commercio e sulle abitudini alimentari dei suoi abitanti.

I reperti di questi contesti ci raccontano molto sui processi antropologici legati alla vita quotidiana dell’epoca.

In particolare, la ceramica è uno degli indicatori più utilizzati per tracciare la storia del commercio antico e la sua influenza sulle abitudini, sull’alimentazione e sulla cultura di un popolo, essendo il manufatto più comune negli scavi archeologici e il più inattaccabile dagli agenti chimico-fisici del terreno.

Le ceramiche esposte in questa sala del museo arrivano via mare specialmente dalla Spagna tra il XIV e il XIX secolo.

Restituite dagli scavi in grande quantità quelle di produzione iberica provengono da Barcellona, Tarragona, Valencia e Paterna.

Dalla seconda metà del Trecento, dopo il ripopolamento catalano della città e per i due secoli successivi, le ceramiche spagnole circolano ad Alghero con assoluta predominanza rispetto a quelle di altra provenienza (Toscana, Liguria, Sicilia, Francia).

Si tratta sia di manufatti invetriati d’uso comune, semplici ceramiche come stoviglie da cucina; sia di maiolica di maggiore qualità con raffinate decorazioni in blu o in vernici dorate o di color rame.

Alla prima tipologia appartengono i caratteristici poal verdi di Barcellona (l’obra verda de Barchinona) brocche utilizzate per attingere l’acqua dal pozzo e le pentole da fuoco (casolas).

Della seconda tipologia ricordiamo invece il piatto smaltato con raffigurazione di pesce di produzione iberica e la ciotola in maiolica smaltata con decorazione a corone prodotta nell’area di Valencia.

L’ampia commercializzazione delle produzioni ceramiche spagnole ad Alghero ci permette di immaginare uno scenario dove la città viene considerata quasi come un “mercato interno” catalano.

I regolari scambi commerciali con la madrepatria e gli elevati volumi di merci derivano certamente da una forte domanda di prodotti catalani dovuta a fattori culturali, come per esempio le tradizioni alimentari e culinarie, e al profondo legame antropologico con la cultura di origine.

Queste importazioni stimolano lo sviluppo di produzioni sarde e permettono di comprendere l’evidente dipendenza morfologica e culturale che gli artigiani locali dovettero subire dai modelli catalani.

Situazione che interessò anche altri centri della Sardegna come ad esempio nel caso di Oristano, le cui forme di produzione riportano in gran parte a prototipi iberici.

SCAVI QUARTIERE EBRAICO (OSPEDALE CIVILE VECCHIO. POZZO DEL QUARTIERE EBRAICO)

Trottole di legno

Baldúfola: è questo il nome con cui, in dialetto algherese, si indica la trottola.

In passato era fra i giochi privilegiati dai più piccoli, che per le strade di Alghero si divertivano a far roteare questo oggetto di legno per più tempo possibile.

Queste due trottole sono state rinvenute nel pozzo del quartiere ebraico medievale e sembrano risalire al periodo che va tra la fine del XV e i primi decenni del XVI secolo.

Gli scavi di archeologia urbana svolti all’interno dell’antico quartiere ebraico hanno fatto emergere oggetti che raccontano di abitudini comuni a tutta la popolazione.

Nel 1492, i re cattolici Ferdinando e Isabella emanarono l’editto per la cacciata degli Ebrei dal regno della Corona d’Aragona. Prima di quella data, ad Alghero viveva la seconda comunità ebraica più importante della Sardegna dopo quella di Cagliari.

Dopo il decreto molte famiglie lasciarono la città, altre si convertirono.

Le architetture del quartiere rispecchiavano lo status dei suoi abitanti: lussuosi palazzi, cortili, case a più piani, botteghe e magazzini. Le abitazioni si estendevano intorno alla Sinagoga che, presumibilmente, si trovava dove oggi sorge Piazza Santa Croce.

Il mondo del sacro e della morte

DOMUS DE JANAS DI TAULERA

Il cranio oggi esposto all’interno del museo apparteneva a un individuo vissuto circa 4.000 anni fa.

Sulla sua superficie sono ben visibili i fori di due trapanazioni eseguite in vivo. Fra la prima e la seconda operazione l’uomo è sopravvissuto circa un anno: lo testimoniano i segni di cicatrizzazione nella zona posteriore dell’osso.

La trapanazione era una pratica diffusa in tutto il mondo antico a partire dall’Eneolitico (4.000 – 3.300 a.C.) fino all’età del Bronzo (2.300 – 1.700 a.C.), e rappresenta la prima forma di operazione neurochirurgica praticata dall’uomo. 

Si presume che operazioni simili avessero finalità rituali e terapeutiche, per curare patologie o traumi. Era frequente, infatti, che dopo gli interventi di trapanazione i “pazienti” sopravvivessero per un periodo di tempo abbastanza lungo. 

Ciò dimostra una profonda conoscenza, da parte degli antichi, dell’anatomia della testa e delle tecniche per eseguire l’operazione limitando i rischi. Non si esclude che tali operazioni richiedessero anche l’uso di anestetici e sedativi quali alcool o droghe.

Il reperto risale al Bronzo Antico (1.800 – 1.600 a.C.) , indicato in Sardegna come il periodo della cultura di Bonnanaro.

È stato ritrovato nella Necropoli di Taulera, unica testimonianza di domus de janas presente nel centro abitato. L’ipogeo è stato scavato durante il Neolitico Recente che, nella Preistoria sarda, viene identificato con la cultura di Ozieri (3.200 al 2.800 a.C.).

La domus è stata riutilizzata anche in epoca moderna, durante la Seconda Guerra Mondiale, come deposito munizioni.

Le attività belliche e il reimpiego di alcuni materiali per l’edilizia urbana hanno danneggiato la Necropoli che è stata recentemente riqualificata.

CIMITERO ROMANO DI MONTE CARRU

Fra il I e il III secolo d.C. l’area compresa fra il santuario della Purissima e la Necropoli di Monte Carru, attualmente situata a nord di Alghero, nella zona di Carrabuffas, coincideva con l’antica comunità rurale di Carbia. L’insediamento romano è presente nella mappa delle principali vie delle province imperiali, l’Itinerario Antonino.

Carbia era il luogo in cui, durante il II secolo d.C., viveva colui che oggi viene affettuosamente chiamato lo Scolaretto di Alghero: un bambino o una bambina morto fra gli otto e i dieci anni d’età e sepolto con la pratica della cremazione. 

La sua tomba, compresa fra le circa 350 sepolture scavate nella Necropoli di Monte Carru, custodiva un raro e prezioso corredo che ha permesso di ricostruire l’identità del giovane e l’importante ruolo che gli era stato assegnato all’interno della comunità.

Il nome scelto dagli archeologi per identificare il bambino fa già intuire il compito che il piccolo avrebbe dovuto assolvere in vita.

I reperti raccontano davvero la storia di uno scolaretto: i resti del suo corpo sono stati infatti accompagnati nell’aldilà da un set scrittorio utile a uno scriba e composto da una spatola in ferro impiegata per stendere la cera su cui poi incidere le parole; un frammento della cornice della tavoletta in osso su cui il giovane scriveva; parte di un calamaio in bronzo e un regolo mensorio, che oggi chiameremmo righello.

La preziosità del set consiste sia nel valore dei singoli oggetti inseriti nel contesto della Sardegna e dell’Italia romane, sia nella rarità di trovarli insieme.

La loro scoperta rivela quanto fosse importante conoscere l’arte scrittoria anche in un contesto provinciale e periferico. Lo scolaretto sarebbe dovuto diventare un referente di prestigio per Carbia e l’affetto familiare ha permesso di ricordarlo come tale, anche quasi 2.000 anni dopo la sua morte.

CIMITERO DI SAN MICHELE

Questo massiccio collare in ferro era avvolto intorno al collo di una giovane donna vissuta ad Alghero durante il XVI secolo.

Il suo scheletro è stato ritrovato in una delle fosse strette e lunghe del cimitero di San Michele, nel centro storico della città. Si tratta di sepolture a trincea risalenti al XVI secolo, in cui gli individui venivano seppelliti collettivamente.

Il cimitero di San Michele rappresenta un ritrovamento unico in Europa sia per la sua grandezza, sia per la cura e l’attenzione con cui sono stati deposti i corpi

Il sito viene definito come l’archivio biologico della città: il cimitero è composto da fosse individuali e comuni, è stato utilizzato per circa 350 anni tra il tardo Duecento e il primo Seicento e ospita i resti dei nostri antenati liguri, sardi e catalani.

Nello specifico, nelle fosse comuni sono stati rinvenuti interi gruppi familiari in cui gli adulti cingevano in un abbraccio coloro che, si presume, fossero i figli. Le trincee testimoniano infatti la terribile epidemia di peste che colpì la città di Alghero e i suoi abitanti fra il 1582 e il 1583.

Si ritiene che anche la ragazza sia morta in seguito al contagio della malattia. Ciò che risulta inusuale, però, è il pesante collare in ferro con cui è stata sepolta. 

Sembrerebbe trattarsi di uno strumento dalle origini taumaturgiche, utilizzato per “curare” persone affette da particolari patologie mentali. La guarigione delle malattie psichiche veniva infatti attribuita a San Vicinio, il cui simbolo è proprio il collare di ferro chiuso da due ganci, a cui veniva legata una pietra per appesantire il collo. Questa pratica veniva imposta alle persone ritenute “indemoniate”, durante l’esorcismo.

Non esistono testimonianze di ritrovamenti simili nel territorio. Il collare di ferro della giovane, dunque, rimane ancora avvolto nel mistero.

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